La teoria di Bickerton
Bickerton, noto linguista britannico, professore presso l’Università delle Hawaii, autore di Language and Species, nonché inventore ed esponente della “Language Bioprogram Theory” – teoria che sostiene l’esistenza di somiglianze strutturali tra differenti tipi di lingue creole attribuibili a fattori non soltanto di origine – afferma che: “Cinque milioni di anni fa’, tra i più remoti antenati della nostra specie, si verificarono queste condizioni”. Lo studioso sostiene inoltre che “i fossili del linguaggio” esistano e siano bene in vista, basta saperli cercare; a tal proposito è molto interessante effettuare un elenco fugace dei 4 “fossili” da lui individuati:
- Antropomorfe ammaestrate linguisticamente al linguaggio dei sordomuti
- Bambini “under two”
- Lingue Pidgin, ovvero quegli idiomi derivanti dalla mescolanza di lingue di popolazioni differenti, venute a contatto a seguito di migrazioni, colonizzazioni, relazioni commerciali ecc.
- Il linguaggio di Genie, interessante storia al quale sarà dedicato un interessante approfondimento nel seguente sottocapitolo, prova tangibile delle relazioni esistenti nei tre precedenti punti e pertanto della loro attendibilità.
Per necessità di sintesi verrà di seguito approfondito solo l’ultimo dei 4 argomenti sopracitati, rimandando il lettore interessato a Language and Species limitandoci pertanto ad illustrare semplicemente i risultati ottenuti.
1.1.a. Il linguaggio di Genie
Storia tratta dall’esperienza di Susan Curtis, psicologa statunitense che tentò di educare Genie, una bambina privata della propria umanità.
Nel novembre 1970 a Los Angeles, California, fu trovata rinchiusa e legata in una stanza una ragazzina di 13 anni e sette mesi. Al momento del ritrovamento la poverina indossava solo un pannolino ed emetteva suoni infantili. I genitori l’avevano tenuta segregata per tutta la sua esistenza, lontana dai contatti umani. La madre, una donna fragile e quasi cieca, disse che lei e la figlia erano succube del marito, un individuo testardo e violento che si suicidò subito dopo il ritrovamento.
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Genie |
Genie, così fu chiamata la ragazzina, fu ricoverata in un ospedale dove trovò, finalmente, un po’ di affetto, ma il suo atteggiamento non cambiò. I suoi modi rimanevano rozzi e violenti: graffiava, sputava e annusava qualsiasi cosa le capitasse a tiro. Stranamente non strillava, forse perché in prigionia veniva picchiata ogni volta che faceva rumore.
Genie richiamò l’interesse di neurologi e psichiatri che la sottoposero a esami specialistici. I referti parlavano chiaro: le sue onde cerebrali non erano normali, come fosse ritardata o avesse subito dei traumi alla testa. Il National Institute of Mental Health comprese allora l’importanza del caso e finanziò una ricerca per studiarne il potenziale e i possibili sviluppi mentali. Le domande a cui dare risposta erano le solite. Poteva imparare ciò che non le era stato insegnato da piccola? Poteva recuperare, se mai le aveva avute, le piene facoltà mentali? Poteva iniziare a parlare? Genie, come in una storia già sentita, alternava momenti in cui sembrava migliorare ad altri in cui sembrava regredire allo stato selvatico. A volte si faceva persino del male colpendosi e graffiandosi da sola. Riguardo al parlare, poi, Genie continuava ad emettere solo poche vocalizzazioni, peraltro senza alcun significato.
L’incarico di seguire la piccola fu affidato a Susan Curtis, una psicologa neolaureata che stava lavorando per il dottorato di ricerca (Ph.D.) e che sperava in cuor suo di farle acquisire quelle capacità che un’infanzia infelice le aveva negato.
L’impegno durò quattro anni, dal 1971 al 1975, e si concentrò in modo particolare sugli sviluppi linguistici di Genie, dato che il linguaggio è ciò che ci distingue dagli altri animali ed è ciò che collega, in diretta, la mente del paziente con quella del dottore. Inoltre, come era già successo per gli altri bambini selvaggi, se Genie fosse riuscita a parlare avrebbe potuto dare notizie sul suo passato.
Purtroppo le vocalizzazioni di Genie erano così rare e improvvise che non fu possibile documentarle su nastro magnetico, tuttavia Susan Curtis non si perse d’animo e le annotò con scrupolo sul diario. Alla fine ne raccolse qualcosa come 2500 tra quelle composte da due o tre parole. Il risultato era poca cosa se lo si paragonava alla valanga di parole che dicono normalmente i ragazzini di quell’età, tuttavia non era male considerando il punto di partenza.
Finalmente, dopo svariati anni di studio e centinaia di pagine di appunti raccolti, nel 1974 venne pubblicato il primo rapporto scientifico, dove traspariva il cauto ottimismo degli addetti ai lavori. Evidentemente il National Institute of Mental Health era di diverso avviso, dato che giudicò insufficienti i risultati, sospese i fondi e lasciò Genie al suo destino. Dapprima la ragazzina tornò a vivere con la madre, che era uscita di prigione dopo aver scontato la pena per abuso di minore. Poi, giudicata la madre incapace di accudirla, fu affidata di nuovo a case di accoglienza e istituti. Fu un periodo disgraziato. Sebbene Susan Curtis non l’avesse abbandonata e l’andasse a trovare regolarmente una volta alla settimana, Genie non trovò più quell’armonia che, forse, le serviva per recuperare le facoltà mentali. Addirittura si parlava di maltrattamenti: una volta vomitò, fu punita e non volle più aprire bocca per non rischiare di essere picchiata. Nell’agosto del 1977 Susan Curtis poté di nuovo tornare a frequentare regolarmente Genie ma non durò a lungo, il 3 gennaio 1978 ci fu l’ultimo incontro e dal 20 marzo dello stesso anno non si ebbe più nessun contatto scientifico.
Uno sguardo superficiale alla vicenda di Genie sembra confermare ciò che i ragazzi selvaggi ci hanno insegnato: i bambini cresciuti lontano dai contatti umani non riescono a recuperare le facoltà mentali e rimangono a uno stadio infantile per il resto della loro esistenza.
In questo caso specifico, però, è bene guardare un po’ più a fondo.
Come si è detto il rapporto iniziale sugli apprendimenti linguistici di Genie uscì nel 1974 e successivamente, nel 1977, fu pubblicato un volume della Curtis. Entrambi questi studi lasciano ben sperare. Curtis, nel 1977, scrive: “La sua acquisizione del linguaggio fino a ora mostra che, nonostante il tragico isolamento sofferto, nonostante la mancanza di input linguistici, nonostante il fatto che non abbia avuto un linguaggio per i primi 14 anni, Genie è equipaggiata per imparare a parlare, e lo sta facendo”.
Nelle pubblicazioni successive Susan Curtis riporta che mentre nel primo periodo, dal 1971 al 1975, le vocalizzazioni spontanee di Genie, composte da due o tre parole, furono 2500, nel secondo periodo, caratterizzato dall’internamento in vari istituti e da visite saltuarie della psicologa, Genie si limitò a coniare solo 4 nuove emissioni; infine, nel terzo periodo in cui la Curtis e la paziente ripresero a frequentarsi giornalmente, Genie ne formulò altre 34 in soli 5 mesi. Sembra quindi che l’acquisizione delle capacità linguistiche da parte di Genie dipendesse dal tempo che la psicologa le dedicava. Tuttavia, in seguito, si nota un cambiamento di rotta. Le decine di pubblicazioni che seguirono diventarono sempre più pessimistiche fino al punto che la maggioranza degli scienziati furono concordi nel ritenere impossibile la rieducazione della ragazza. Come mai una partenza così promettente si è poi rivelata un fallimento? Come mai, dopo vent’anni di dibattiti, c’è chi sostiene che Susan Curtis avrebbe visto bene prima del 1977 e non dopo?
Senza entrare in una vicenda complicata, col rischio di rimanere invischiati in discussioni troppo specialistiche, tentiamo di dare qualche risposta. Potremmo pensare che Susan Curtis avesse pensato di essere sulla buona strada per poi ricredersi. O potremmo ipotizzare, più maliziosamente, che la necessità di recuperare fondi per la ricerca spinse Fromkin e collaboratori a calcare un po’ la mano. Non ci sarebbe niente di strano, viste le lotte fra scienziati, istituti e università per finanziare i propri studi.
Comunque sia, è difficile capire dove sta la verità. Sicuramente possiamo affermare che tutti gli studiosi dei bambini selvaggi, specie all’inizio, si sono illusi di riuscire a comunicare attraverso il linguaggio e tutti, successivamente, si sono dovuti ricredere. Inoltre è certo che Genie, nonostante fosse stata seguita con costanza per almeno i primi quattro anni, è rimasta per sempre a uno stadio primitivo[1].
1.1.b. I risultati
A seguito di tali studi, grazie alle conclusioni tratte dall’esperienza della Dottoressa Susan Curtis ed una volta appurato che linguaggi primitivi quali ad esempio quello parlato dalla giovane Genie possono essere paragonabili a quelli parlati da bimbi sotto i due anni di età, o a quelli messi in atto da antropomorfe ben ammaestrate o addirittura ai parlanti di lingue Pidgin, è stato possibile evincere che tali protolinguaggi rappresentano il grado intermedio di passaggio tra le lingue moderne e lingue primitive o di partenza o PRS (Sistema Rappresentativo Primario), così come Bickerton le definisce nella sua opera.
In conclusione, esso poté affermare che secondo lui lingue e protolingue sono elementi profondamente distinti e le differenze tra di esse sono tanto ampie quanto radicali ma nonostante ciò, il protolinguaggio può essere definito come la base lessicale per qualsiasi varietà di lingua.
Stabilito pertanto nel protolinguaggio il grado intermedio di evoluzione linguistica, lo studio di Bickerton verte successivamente sulla ricerca di contesti ed elementi che lo hanno reso possibile e, non essendo possibile lavorare su “fossili” linguistici in modo diretto, prende in esame elementi di carattere medico-anatomico direttamente correlati con il linguaggio, relativi al cranio ed alla sua dimensione ed al sistema endocrino.
Il risultato di tale studio è che, stando alle analisi condotte da Bickerton, una svolta tangibile nello sviluppo delle capacità celebrali utili allo sviluppo di lingue distinte, dovrebbe essersi verificato in contemporanea con la comparsa dell’Homo Erectus - purtroppo però tale ipotesi risulta essere la più plausibile sebbene non empiricamente dimostrabile tra le varie da lui formulate – ed affinatosi probabilmente con l’avvento dell’Homo Sapiens, il quale a seguito di ulteriori variazioni genetico-evolutive si ritrovò un cervello adatto al compimento di variazioni radicali nelle modalità di espressione umane e quindi nella creazione di forme di comunicazione innovative.
Una schematizzazione sommaria ma chiara del processo evolutivo linguistico studiato da Bickerton può essere la seguente:
- Fase 1: Creazione di Prelinguaggi, in contemporanea alla comparsa dell’Homo Habilis (PRS).

- Fase 3: Comparsa ed evoluzione di lingue contemporaneamente alla comparsa dell’Homo Sapiens (sino ai giorni nostri).
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